A partire dalla crescita del movimento della sinistra radicale dovuto all’enorme lavoro fatto nei territori durante il periodo della cosiddetta “emergenza rifiuti”, nella città di Napoli sono nate tutta una serie di occupazioni, in numero notevole rispetto alla media italiana e forse anche internazionale, di spazi che, in linea di principio e generalmente, in maniera più o meno coerente, tendevano a superare il classico modello “centrosocialista” e si aprivano, invece, a una strutturale interazione con gli abitanti della metropoli.[2] Nessuno, infatti, si definiva come spazio “occupato” e molti, invece, coscientemente, si andavano a denominare quali spazi “liberati” della città. Ad essi, poi, si aggiungevano alcune occupazioni a spazio abitativo, che si muovevano però sempre all’interno di questa logica generale di interazione stretta col territorio.
Dal punto di vista “legale”, invece, i luoghi in questione restavano spazi occupati, con tutte le conseguenze del caso, almeno fino alla nascita della prima giunta De Magistris. Questa entrava in una dinamica di “dialogo” con queste esperienze e, a partire dal 2011 e fino a tutto il 2017, il Comune di Napoli “ha approvato in Consiglio Comunale una nuova delibera avente in oggetto le procedure per l’individuazione e la gestione collettiva dei beni pubblici, quali beni che possano rientrare nel pieno processo di realizzazione degli usi civici e del benessere collettivo. Una delibera che ha attivato un ampio dibattito in Italia e che pone al centro dell’azione amministrativa il prevalente interesse pubblico sancito dalla Costituzione.” Per quanto ci riguarda specificamente: “A partire dal 2015 il Comune di Napoli ha preso atto delle ‘Dichiarazioni d’uso Civico delle Comunità’ dell’ex Asilo Filangieri, di Villa Medusa, del Giardino Liberato, ex Lido Pola, ex OPG, Scugnizzo Liberato, Santa Fede Liberata.”[1]
Con la giunta De Magistris si è aperto così un confronto che in qualche modo avallava almeno una parte, quelli di proprietà comunale, di occupazioni di beni pubblici dismessi utilizzati ad uso “civico”, con attività gratuite aperte ai quartieri e al territorio inteso nella sua totalità metropolitana. Operazione in sé meritevole, che in qualche modo riconosceva un lavoro che si è dispiegato per anni e che in alcuni momenti (emergenza rifiuti, pandemia e crisi economica) ha rappresentato un punto di riferimento per le attività mutualistiche nei quartieri e sui territori. Fin qui tutto bene; fintantoché non si intravede l’asfalto sottostante durante la caduta.
La delibera in sé è un documento di indirizzo politico-amministrativo, insomma non è un documento scolpito sulla pietra: può essere revocato anche solo quando la giunta cambia il suo indirizzo politico e intravede margini di illegittimità o di danno erariale. In questo caso essa può tranquillamente ritirare la delibera ed il “ritiro” dell’atto può avvenire attraverso l’annullamento, la revoca e l’abrogazione. Può avvenire anche attraverso il “mero ritiro” nel caso in cui l’atto oggetto di nuova valutazione non abbia ancora prodotto i suoi effetti .”[2] Quindi la discrezionalità del proprietario (in questo caso il Comune) è ampia nella valutazione della “redditività” della “concessione”.
Ora entrare nella questione di quanto ha prodotto in termini “reddituali” uno spazio occupato o, come con buone ragioni si usa dire oggi “liberato”, per il bilancio comunale è questione che lasciamo ai burocratucci di palazzo San Giacomo e ai relativi uffici patrimonio. Eppure chi si è ritrovato, volente o nolente, in questo labirinto kafkiano deve fare i conti con questa logica: “Hic Rhodus hic salta” verrebbe da dire.
Veniamo perciò ai giorni nostri. Lo scorso Aprile 2022, Invimit, società partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, e il Comune di Napoli annunciano la sottoscrizione di un “Piano di Valorizzazione ed Efficientamento del Patrimonio Immobiliare del Comune di Napoli” tramite l’istituzione di fondi comuni di investimento. L’accordo si inserisce nell’ambito del “Patto per Napoli”, siglato negli scorsi giorni dal Presidente del Consiglio Mario Draghi e dal Sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, per risanare i conti pubblici statali e comunali. Il patto in questione prevede uno stanziamento di 1,3 miliardi di euro a fronte di tutta una serie di provvedimenti fiscali, di riscossione e ulteriore tassazione.[3] Accordo definito in maniera sagace dai movimenti partenopei “Pacco per Napoli”: in poche parole, noi ti prestiamo i soldi per ripagare soprattutto l’enorme quantità di debito che abbiamo caricato all’improvviso sulle tue spalle con l’operazione che la precedente giunta aveva definito, non senza ragioni, “debito ingiusto”;[4] ce li restituisci vendendoti i gioielli di famiglia della città sul mercato.
Sul fronte beni comuni la contraddizione si aprirà, magari non subito, proprio su cosa si intende per “rendere redditizi” questi spazi. Le dichiarazioni iniziali di sindaco e assessori, del resto non lasciano spazio a dubbi. “Ci sono profili di responsabilità erariale. Abbiamo spazi pubblici occupati su cui non c’è un chiaro affidatario” (…) È una situazione molto complessa, delicata, su cui c’è attenzione della Corte dei conti.” afferma il neo sindaco di Napoli che verifica un “danno erariale”. Sono circa 600 gli immobili e le strutture individuate da manutenere per valorizzarle e in seguito venderle. Qualcosa nel frattempo già si è mosso: in avanscoperta l’assessora all’Urbanistica Laura Lieto ha incontrato alcuni dei Beni Comuni per chiarire : “D’ora in poi non si occupa senza pagare alcunché”.[5]
Le contraddizioni stanno emergendo a poco a poco ed occorre essere preparati a qualsiasi scenario possibile. Poco contano in questo caso gli accordi a chiacchiere od i “gentleman’s agreement” fatti con altre istituzioni, fondazioni o chi per esso. Il proprietario di fatto resta sempre il Comune e, perseguendo questa logica, con lui si dovranno fare i conti: per di più con una giunta dall’impostazione notevolmente diversa dalla precedente e, per usare una terminologia corrente, rigidamente neoliberista.
Una cosa è certa e la si può dire in senso generale. Fin quando il lavoro nei quartieri, con attività mutualistiche e gratuite, troverà un ampio consenso da parte degli abitanti con un coinvolgimento reale, la valorizzazione capitalistico-speculativa incontrerà un ostacolo difficile da superare. La valorizzazione di un bene o di un luogo pubblico sarà allora valutata in base a criteri che nulla avranno a che vedere col valore di scambio, col deficit del bilancio comunale o con la speculazione immobiliare.
Un altro aspetto della faccenda è che il movimento dovrà avere la capacità di non rinchiudersi nella sola difesa dei luoghi liberati ma, al contrario, dovrà affrontare la questione della svendita delle proprietà pubbliche nella sua interezza. La strategia comunale e governativa, come dicevamo sopra, ha praticamente messo all’incanto mezza Napoli: i Beni Comuni sono solo una minima parte di quest’operazione, anche se, dal punto di vista ideologico, essi, con la loro dinamica di gestione diretta del territorio fuori dalla logica mercantile e, invece, di mutualismo e gestione diretta, rappresentano indubbiamente la vera e propria bestia nera di una tale logica liberistica.
Flavio Figliuolo
NOTE
[1] https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/16783
[2] Tar Catanzaro (Calabria) sent. n. 1442 dello 02.10.2007
[3] https://www.fanpage.it/napoli/patto-per-napoli-draghi-scheda/
[4] Si accollavano, ad esempio, alla città con gli interessi i soldi spesi dallo Stato centrale durante l’epoca del terremoto e dell’emergenza rifiuti.